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Unità d'Italia e Brigantaggio nel secondo '800

Il secondo Ottocento registra nel suo primo decennio un'ampia e ferma opera di ricomposizione dell'ordine pubblico da parte della casa borbonica di Napoli. Particolarmente perseguiti dalle Gran Corti Criminali provinciali i rivoluzionari del 1848 ed il diffondersi della delinquenza comune in appoggio al brigantaggio, che, per quanto sopito, non aveva mai smesso di operare.

La relativa calma, comunque, durò fino al 1860, quando si abbattè sul Regno di Napoli il ciclone Garibaldi e dei suoi mitici Mille. Questi, sull'onda dell'entusiamo suscitato dovunque, tra maggio e settembre conquistarono alla causa piemontese l'intero regno borbonico. Il 7 settembre, entrato trionfalmente in Napoli dopo aver percorso vittorioso, Garibaldi dichiarò decaduta la dinastia borbonica ed annesse il Regno ai Savoia. Il successivo Referendum, quasi un pro forma, consacrò l'anessione, anche se non mancarono gli incidenti di percorso. Particolarmente grave e significativo quello intercorso all'arcivescovo di Rossano, Mons. Pietro Cilento, che per essere filoborbonico, venne accusato di sabotaggio del referendum e condotto in carcere a Cosenza. In realtà l'arcivescovo, con una Circolare aveva solo invitato i sacerdoti della diocesi ad esaminare "le cose senza pregiudizio, passione o spirito di parte" e a considerare se eventualmente l'indizione del Plebiscito contenesse qualcosa che potesse "essere di pregiudizio alla Nostra Sacrosanta Religione e alla pubblica morale, di cui siete custodi". Se tutto era in ordine "date pure il vostro si. Ma, se al contrario, prevedete che esso mena a conseguenze di danno a quella religione e di detrimento alla pubblica morale, profittate allora dell'arbitrio che vi concede l'apposito decreto, pronunciatevi liberamente per il no". L'esito delle votazioni in realtà fu plebiscitariamente favorevole all'annessione. Nel Distretto di Rossano i voti per il "Si" furono 13.694, contro 24 sparuti "No". A Campana non ci fu nessun "No", mentre i "Si" risultarono 457, su 920 iscritti. Analogo risultato si ebbe nei paesi del Circondario: Bocchigliero 719 Si e 6 No; Calopezzati 319 Si; Caloveto 210 Si e 3 No; Rossano 3500 Si; Cropalati 236 Si e 1 No; Longobucco 1851 Si; Mandatoriccio 353 Si; Pietrapaola 260 Si. All'epoca, nel 1861, Campana contava 2365 abitanti: in quell'anno vi erano stati 19 matrimoni; i nati erano stati 91, mentre i morti ben 145. Il cambiamento di regime avviò una serie di riforme atte ad inquadrare i nuovi territori nell'insieme del Regno d'Italia. L'8 gennaio 1861 vennero indetti i comizi per eleggere il 1° Parlamento nazionale. Per il Collegio di Rossano, dopo il ballottaggio del 3 febbraio, risultò eletto il barone Pietro Compagna, che ebbe la meglio sul rossanese Benedetto Greco. Due mesi dopo con decreto del 1° aprile 1861, vennero costituiti anche i Consigli Provinciali. Per il Distretto di Rossano, diviso in 7 Circondari, vennero chiamati a farne parte Gaetano Toscano (Rossano), Giovanni Morgia (Corigliano), Giuseppe Boccuti (Longobucco), Francesco Fonzi (Cropalati), Nicola Pugliese (Campana), Pasquale Venneri (Cariati), Guglielmo Tocci (S. Demetrio Corone). In concomitanza con le elezioni per i Consigli Provinciali si tennero anche quelle per la ricostituzione dei Consigli Comunali. Il nominativo del Sindaco, invece, per il Decreto Luogotenenziale del 16 agosto 1861, era di competenza governativa. Per Campana venne nominato sindaco Giovanni Palopoli, che subentrò a Pietro Grano. Il sindacato del Palopoli è da ricordare per due vicende particolari. A lui si deve, nel 1862, il restauro della Torre dell'Orologio dell'attuale Piazza Italia. Il fatto è ricordato da una lapide apposta sulla porta della Torre, in cui si legge: "ANTICA TORRE RESTAURATA IN APPALDO DAI MAESTRI PIETRO BARONE E TOMMASO PIRO. S. GIOVANNI PALOPOLI SINDACO. S. GIUSEPPE SERAFINI E BRUNO DE MARTINO DEPUTATI. A. D. 1862". Lo stesso Sindaco, il 23 marzo 1864, mentre tornava da Scala Coeli, presso il mulino di Cundari, venne catturato a scopo di estorsione dalla banda del brigante Palma. Dato in consegna alla comitiva di Nicola Capalbo, sarà poi liberato una ventina di giorni dopo dalla Guardia Nazionale comandata da Bruno De Martino. La Guardia Nazionale era stata istituita dal nuovo regime sul finire del 1861. Il comando di zona venne istallato a Rossano con giurisdizione dal Crati al Neto. In pieno assetto di guerra per combattere il brigantaggio vi venne dislocato il 66° reggimento fanteria della Brigata Valtellina al comando del maggiore Pietro Fumel. Distaccamenti vennero assegnati ai singoli paesi del Circondario. A Campana il comando delle Guardie Nazionali venne affidato a Nicola Lautieri, cui successe nel 1862 Bruno De Martino. Il distaccamento di Campana, come del resto quello dei paesi vicini, si distinse particolarmente nella lotta contro il brigantaggio, di cui andremo a parlare.

1. Lotta contro il brigantaggio
Il brigantaggio politico degli inizi dell'Ottocento che sembrava debellato, in realtà era rimasto solo momentaneamente sopito, pronto riemerge in ogni momento. L'ordine pubblico tra delinquenza comune e organizzata continuò ad essere turbato e minacciato da omicidi, ricatti e rapine di matrice brigantesca. Il Distretto di Rossano, in particolare, era tenuto sotto pressione dalle bande del Magaro, di Antonio Blefari e da altri, contro cui poco potè il maresciallo Enrico Statella, inviato all'uopo da Napoli con poteri speciali. Il fenomeno si aggravò dopo le delusioni del 1848 e le successive operazioni repressive messe in atto dal re di Napoli nella speranza di riportare l'ordine. Proprio in questo periodo si formarono le nuove bande di Domenico Sapia detto Brutto, di Francesco Godino detto Faccione, di Domenico Straface detto Palma, tutti di Longobucco, del rossanese Domenico Falco, di Egidio Blefari, che si consegnerà al Capo Urbano Pasquale Passavanti nel 1849 e di cui ci occuperemo anche più avanti. In questo clima di incertezza e di terrore, a pagare è stata spesso la popolazione, costretta a subire angherie e maltrattamenti di ogni tipo. La paura di ritorsioni, anzi, spinse molti a collaborare con i briganti come manutengoli, a non denunciare le angherie, a favorire le fughe e la latitanza. Nel marzo 1850, per esempio, nella Pretura di Savelli Filippo Chiarello di Campana e i fratelli Giovanni e Bruno Aiello di Bocchigliero vennero processati per "spionaggio" e per aver fornito "alimentazione ai banditi" nel bosco "Pescaldo" di Umbriatico. Ai primi del 1849, inoltre, in località Imbarrata di Campana, il bovaro savellese Domenico Greco venne assalito e battuto a morte dal brigante Francesco Torcasso, detto "Parafante". Creduto morto, invece si riprese. Qualche tempo dopo, con l'appoggio della banda di Nicola Renda appostò il Torcasso uccidendolo con altri due pastori in territorio di Verzino. Arrestato con tutta la banda venne poi processato e condannato ai lavori forzati. Si è già accennato alle iniziative promosse da Francesco II per arginare il dilagare della malavita. Tra queste, in particolare, da ricordare la "Lista di fuorbando" emanata il 7 marzo
1860, in cui figurava l'elenco dei banditi, che vennero invitati alla resa volontaria o presi con la forza ricorrendo anche a taglie a favore di chi consegnava o uccideva briganti. Dall'insieme dei provvedimenti e soprattutto dopo l'invio del gen. Statella qualche frutto si ebbe. Questi mobilitando squadriglie di volontari e destinando nerbi di truppe nei paesi più a rischio riuscì a coinvolgere e ottenere collaborazione anche dalle forze locali. Così le squadre di Campana e Bocchigliero, per esempio, riuscirono rispettivamente a sbaragliare la banda di Matteo Capalbo, che venne ucciso, e a snidare le bande di Savelli uccidendo altresì il brigante Salvatore Grande di Mandatoriccio. Malgrado gli sforzi, la situazione restava comunque preoccupante. Della cosa si rese interprete il Decurionato di Rossano che il 20 settembre 1860, a pochi giorni dall'entrata trionfale di Garibaldi in Napoli, con il sindaco Fortunato Amarelli presentava istanza urgentissima al Governatore Generale di Cosenza chiedendo provvedimenti mirati al debellamento della piaga del brigantaggio, che proprio nel Distretto e in Longobucco in specie aveva posto la sua sede. Si chiedeva la costituzione in loco di una Commissione Militare "per eseguire le condanne" e "la spedizione in Longobucco di un giudice integerrimo per la espletazione dei processi". La richiesta, anche se non mancò qualche effetto positivo, non ebbe l'esito sperato, per cui lo stesso Decurionato il 21 ottobre 1861 rivolgeva analogo e più energico appello al Luogotenente Generale di Napoli. Questo appello e l'altro rivolto al gen. Ciallini alla fine di novembre ottenne un vasto spiegamento di forze, che andò a dare coraggio alle autorità e popolazioni locali, impegnate tutte in una più energica lotta contro i briganti. Il comando generale delle truppe dislocate nel Circondario di Rossano venne affidato al maggiore Pietro Fumel, che rimise in vigore le misure restrittive che cinquanta anni prima avevano consentito al generale francese Manhes di infliggere al brigantaggio un durissimo colpo, fino quasi ad annientarlo. Dispose il censimento delle bande e dei singoli briganti, dei manutengoli, delle spie e favoreggiatori; vietò il commercio delle armi e sottopose a permesso il porto d'armi; promise clemenza ai briganti che si consegnavano spontaneamente mentre fu intransigente con i renitenti arrivando persino ad esporre in pubblica piazza le teste mozze dei briganti uccisi. Stabilì un premio di 100 lire per ogni brigante consegnato vivo o morto; garantì l'impunità al brigante che avesse ucciso un compagno ed un premio di 50 lire per ogni denuncia di brigante. La fucilazione immediata era inferta a chi dava ricetto o nascondeva briganti. Con queste misure severe e crudeli, che acquistarono al Fumel il titolo di "fosco nome d'una fosca storia", e con i reparti di soldati e le squadriglie della Guardia Nazionale rimessa a nuovo in ogni paese, il brigantaggio ridusse in parte la tracotanza. Numerosi briganti furono catturati o fucilati senza pietà. Molte bande furono distrutte o decimate. Vennero distrutte, per esempio, le bande di Tommaso Greco, che operava tra Campana e Verzino, e quella di Falbo di Celico attaccata nei pressi di Bocchigliero. A dare man forte all'opera del Fumel intervenne il 15 agosto 1863 la legge Pica (n. 1409), con cui il governo italiano mirò ad estirpare in radice il brigantaggio, visto e sentito come una vera piaga in un contesto sociale che avrebbe meritato favorevoli interventi di rilancio economico e di riforme amministrative, piuttosto che interventi di repressione. Il brigantaggio di questo periodo se rivela in parte il disappunto e la delusione popolare dopo le speranze del 1848 e le promesse garibaldine, rivela altresì una reazione istintiva e fuorviante da parte di minoranze senza prospettive, il cui intento alla luce dei fatti è tutt'altro che l'emancipazione sociale del popolo. Sono interessanti e di prima mano le cronache sulla lotta contro il brigantaggio riportate da Vincenzo Padula sul periodico Bruzio , da lui fondato e pubblicato tra il 1864-65, anni in cui, malgrado le leggi citate, le bande dei briganti facevano sentire con forza la loro presenza malefica, con notevoli danni dovunque denunciati. Per avere un quadro della situazione, l'11 aprile 1863, il Prefetto di Cosenza Enrico Guicciardi (ordinanza n. 21) impose ai Sindaci della provincia la compilazione dello Stato nominativo dei danneggiati del brigantaggio. L'indagine si era resa necessaria per prevedere qualche indennizzo a favore di chi subiva danni di ritorsione a causa del suo impegno contro i briganti. I danni cominicvano ad essere così pesanti, che potevano provocare un qualche scoramento e disimpegno nella lotta. I fratelli De Martino di Campana, ad esempio, noti per l'avversione contro i briganti, nell'agosto 1864 dalle comitive di Palma e Capalbo patirono l'uccisione di 450 capre e un vitello, mentre 7 vacche persero i Cundari. L'atto criminoso fu per vendicare l'attacco a sorpresa con cui i De Martino qualche mese prima avevano liberato dalle mani dei briganti il sindaco Giovanni Palopoli, sequestrato mentre faceva ritorno a Campana da Scala Coeli. Lamentando la poca accortezza e vigilanza del delegato del Mandamento di Campana, così Vincenzo Padula commenta il fatto:

"La nostra pastorizia se ne va, e se ne va davvero. L'uccisione di 450 capre è la rovina di ogni onesto proprietario, come sono De Martino, e noi gridiamo essere giusto che venga indennizzato di tanto danno dalla cassa pei danneggiati da Brigantaggio; perchè i De Martino hanno sofferto questa iattura per vendetta che il Capalbo volle fare del modo eroico, ond'eglino gli tolsero il sequestrato Palopoli. Se chi persegue i briganti non si vede ristorato dei danni che gli frutta il suo amore all'ordine pubblico, uscirà a tutti di corpo il pensiero di distruggerli".

Lo stesso Padula all'atto della liberazione del Palopoli così ebbe a scrivere:

"Una viva alla guardia nazionale di Campana. Al momento di mettere torchio (il giornale, n.d.r.) sappiamo per telegrafo che la coraggiosa guardia nazionale di Campana sorprendendo la comitiva Capalbo nella contrada Tironolello abbia liberato il sig. D. Giovanni Palopoli, ch'è già salvo ritornato in sua famiglia. Ci congratuliamo con questo buon signore, e non abbiamo parole sufficienti per lodare lo zelo dell'autorità che han disposto il movimento delle guardie nazionali, e queste medesime pel coraggio, onde han dato si bella pruova. Il terreno è sparso di sangue, ed esse, posto in salvo il sequestrato, continuarono la caccia dietro i briganti che fuggono. Bravo! Mille volte bravo! aspettiamo i nomi dei valorosi per raccomandarli alla fama ed alla gratitudine del governo".

Per l'operazione di salvataggio, il 16 aprile,
la Giunta Municipale riunita sotto la presidenza dell'Assessore delegato alle funzioni di Sindaco Giuseppe Serafini, nell'esprimere pubblico plauso al cap. Bruno De Martino deliberava di dichiarare "benemerito della Patria" il giovane milite Cesare De Martino e di fargli dono di "un due colpi e di un revolver da usare in bene e ad amore del Paese" perchè isolato dai compagni nello scontro contro i briganti "senza poggio, innanzi a cinque masnadieri, disprezzando la propria vita con sangue freddo, ebbe audacia tale di fargli fronte, ferirne uno, gridare l'allarmi a' convicini fratelli, snidare i Briganti, ed impadronirsi dei due sequestrati". Anche per gli altri partecipanti Bruno De Martino luogotenente, Gaetano De Martino sottotenente, Saverio De Martino sergente, Luca Ioverno milite venne deliberato di far loro dono di un revolver ciascuno, di essere dichiarati anche loro "benemeriti della Patria" e di far ottenere dal Governo del re una menzione d'onore. Pur non avendo avuto briganti di fama, ma solo una dozzina di manutengoli, il territorio di Campana era parecchio infestato dai briganti, che vi operarono isolatamente e in comitiva. Si ricordano Francesco Berardi (Longobucco), Rosario Bossio (Bocchigliero), Nicola Capalbo (Rossano ?), Vincenzo De Simone (Paludi), Angelo Serafino De Luca (Longobucco), Vincenzo Gammato (?), Pasquale Licciardi (Paludi), Domenico Straface detto Palma (Longobucco), Domenico Pisani (?), Giovanni Salatino (Paludi), Giuseppe Scarcella (Longobucco). Con una presenza così massiccia di briganti non può meravigliare più di tanto l'ampia risonanza che il fenomeno ha lasciato nell'animo popolare. Le molte storie di briganti, che ormai fanno parte del folklore paesano, ne sono l'evidente testimonianza. Abbiamo ricordato inoltre i danni inferti alla famiglia De Martino, ma le ritorsioni non risparmiarono altre famiglie, a cui i briganti non hanno perdonato la collaborazione fornita alle pubbliche autorità o la partecipazione diretta alle operazioni militari. Sintomatico è quanto dovette pagare Luca Ioverno per avere partecipato alla liberazione del sindaco Palopoli, di cui si è già parlato. Nella colluttazione il Ioverno aveva ferito il brigante Giovanni Torchia, che, rimessosi in salute, nel giugno 1864 si vendicò uccidendo al Ioverno 50 capre con un danno di oltre 500 lire. Alla fine di maggio 1865, il capobanda Nicola Capalbo, giunto di notte nella mandria di Antonio Rossano a poca distanza dal paese, costrinse i mandriani ad apparecchiargli un agnello. Il Rossano, allontanatosi di soppiatto, riesce ad avvertire il sindaco ed il comandante delle guardie, che intervennero senza indugio. Il Capalbo, subodorato il pericolo, lasciò la mandria avviandosi verso il paese. Qui, in contrada Croci, intercettò le guardie riuscendo a fare fuoco per primo. Nello scontro restò ucciso il milite Giuseppe Rovito, mentre il sergente Agostino Lautieri venne ferito. Il brigante riuscì a fuggire dandosi alla macchia. Ma non sempre andò liscia ai briganti. Nel marzo di quell'anno 1865, il cap. Martinotti di stanza a Cropalati con la collaborazione dei capitani Fessore e Baroncelli e con l'aiuto delle Guardie Nazionali di Campana, Caloveto e Pietrapaola, riesce a snidare nel bosco di S. Angelo tra Ronza Vecchia di Campana e la Scanzata di Bocchigliero un covo di briganti in transito. Riportiamo per intero la vivace cronaca dell'operazione fatta da Padula:

"Il bravo capitano Martinotti comandante il distaccamento del 19° Bersaglieri stanziati in Cropalati ebbe da informazioni particolari la presenza di briganti nelle Pianette di Campana. Credendo che per acchiapparli fossero insufficienti le sue forze, benchè vi fosse un'altra compagnia mandata dal Maggiore e comandata dal Capitan Fessore, invitò l'altro Capitano signor Baroncelli ad occupare con le G. N. di Campana il punto tra Ronza vecchia, e
la Scanzata di Bocchigliero; mandò alla destra di lui alle falde di monte Santangelo il Sottotenente Della Beffa con 24 guardie nazionali di Pietrapaola, alla sinistra il capitano Fessore con la propria compagnia e 4 militi di Caloveto, ed egli il bravo Martinotti con due Carabinieri ed altre guardie nazionali si collocò alla destra del sottotenente. La notte del 22 li vide tutti immobili al loro posto; spunta l'alba del 23, ed una colonnetta di fumo che si levava queta queta da un pagliaio dice al Martinotti che colà si appiattassero i briganti. Di presente mette in agguato ed in vari punti le sue forze. I briganti erano tre, si avveggono di essere presi in mezzo, e catellon catelloni procacciano di traforarsi una scappatoia. Si abbattono nel Sergente dei Bersaglieri Carlo Caleri. L'animoso sergente sgrilletta la sua carabina, uno ne fredda, e due ne fuga. I due fuggenti allibiscono, cercano di salvarsi per vie diverse; e il primo fu avventurato. Dà in una punta di Guardie nazionali; queste gli scaricano addosso i fucili; ma i fucili si trovano carichi a piombo minuto, il brigante mette un grido, spicca una capriola e si salva nel bosco, dove non fu possibile scovarlo. Ma l'altro trovò il suo dovere. Dà giusto nel muso di Martinotti, e vederlo e scaricargli sopra il fucile fu tutto uno. Non lo coglie. Martinotti gli tira, lo piglia nel petto; e lo manda a terra. Ferito, sanguinoso, impolverato il brigante si rialza e scarica la seconda canna del suo archibugio sul bersagliere Giovanni Bertel. La palla fora al poveretto ambedue le mani, e gli si conficca nella coscia. A questo, il Martinotti e le guardie nazionali fanno fuoco ad un tempo, e il brigante cade per sempre sotto un diluvio di palle. Chi erano costoro? Il brigante ucciso dal sergente Caleri era Pietro Maria De Luca da Longobucco. I compagni lo chiamavano Sòrice, ossia il topo; il modo della morte rispose a quel nome, ed ei finì nella trappola; ma l'altro che impavido spara e non coglie, che ferito cade, e si rialza, che si rialza e rende storpiato per tutta la vita un bersagliere era Giuseppe Scrivano".

In verità lo Scrivano era ormai diventato un collaboratore di giustizia infiltrato nella banda di Palma, per cui la sua uccisione fu un terribile sbaglio. La stretta delle pubbliche autorità stava ormai incalzando i briganti nell'intento di chiudere presto la partita. A riguardo continuiamo a citare Padula:

"L'ardore entrato nella truppa, dopo l'uccisione di Scrivano e De Luca, è incredibile; e volendo finirla con Palma, ora che ne hanno trovato le tracce, il giorno 26 marzo tutte le autorità civili e militari del Rossanese pensarono di fare un bel colpo. I briganti sono nel bosco Morto presso Mandatoriccio; si mettono sotto le armi 105 bersaglieri, 13 granatieri con due capitani e tre tenenti, si accozzano 300 guardie nazionali coi loro capitani, si tiene nientemeno un consiglio di guerra, e si circonda il bosco con venti impostature. La cattura dei briganti pare inevitabile. Le famiglie dei briganti sono costernate; uomini e donne in Mandatoriccio corrono da chiesa a chiesa facendo dir messe, perchè i briganti la scampino.... I briganti erano cinque con una brigantella; si avveggono di trovarsi sotto la schiaccia, e muovono carponi, alla sentita, e raccolti .... Con l'aiuto di un vaccaro del sig. Labonia i cinque briganti e la brigantella passano sani e salvi a traverso di 440 armati".

Non altrettanto bene andò l'8 maggio successivo al capobanda Domenico Sapia, il Brutto, che cadde ucciso presso Mandatoriccio sotto i colpi della colonna comandata dal maggiore Daviso. Restò ferita e arrestata, invece, la sua druda, di cui si ignora il nome. La lotta ferrea ingaggiata stava dando i suoi frutti. da un consuntivo sullo stato del brigantaggio nel 1865 si rileva che nella provincia di Cosenza i briganti attivi erano 52, di cui 19 già assicurati alla giustizia e 33 ancora liberi. Tra questi ultimi figurano i longobucchesi Domenico Straface (Palma), Luigi Maio (il Catalano), Luigi Campana (Pizzitorto), Francesco Godino (Faccione), Vincenzo Forciniti (Teo), Domenico Graziano (Turchio), Francesco Marino (Lucaria), oltre al bocchiglierese Rosario Bossio (Reccio) ed il campanese Andrea Todaro (Crozza). Le misure repressive attivate dal Fumel con sistematico rigore avrebbero certamente debellato definitivamente il brigantaggio se non fosse intervenuto lo scoppio della terza guerra di Indipendenza, che nel 1866 rese necessario il richiamo dello stesso Fumel con molta parte del contingente militare, che venne spostato verso il fronte. La pausa consentì ai briganti di riorganizzarsi e di riprendere l'attività criminosa con più slancio. Contro di essi, alla fine della guerra, venne inviato il col. Bernardino Milon, che riprese con energia la lotta di repressione. Tra le vittime figura nel marzo
1866 l'unico brigante campanese Andrea Todaro, ucciso in contrada Fossa dopo un accanito conflitto armato con le guardie nazionali del comandante Bruno De Martino. Sulla vicenda si è imbastito un piccolo giallo riguardante l'autore dell'uccisione del brigante. Tale Francesco Parrotta di Campana il 17 aprile 1866 scrive al Direttore de "Il Martello", periodico che si stampava a Rossano, attribuendosi l'uccisione del brigante già assegnata al De Martino ed esigendo la taglia prevista. Così scrive:

"Sotto la data del 25 marzo si legge nel Martello: " Bruno Di Martino Capitano della G. N. di Campana, saputo che nella contrada detta Fossa annidavasi il brigante Andrea Todaro con un'altro, vi si recò in unione d'altri suoi fratelli e dopo accanito conflitto riuscì ad uccidere Todaro, salvandosi l'altro colla fuga". Perdona, Sig. Direttore, se dico che ciò è un pretto mendacio. Il brigante Todaro venne ucciso da me la sera dei 22 marzo verso mezzora di notte: era solo e non in unione di altri briganti; sono in mio potere gli elementi per comprovarlo: il qui nero tradimento usato al reclamante da Pietro Rossano che trovavasi presente, ha fatto comparire il De Martino uccisore del Todaro ed ora, vedendo che tanto i rapporti scritti dal Sindaco di Campana sul mio conto pel servizio reso, che gl'informi presi dai Reali Carabinieri nulla valgono perchè rattenuti forse come lettera morta: ho risoluto di tutto denunziare al direttore del Martello, pregando di accogliere nelle colonne del suo periodico il presente reclamo, far sua la causa del Parrotta e così non lasciarlo sopraffare dal De Martino che di certo attaccherà il meschino per ogni verso per perderlo ed avvilirlo. Francesco Parrotta".

Non tardò la risposta di Bruno De Martino, datata 25 aprile e che nel numero successivo del periodico venne puntualmente pubblicata dal direttore Serafino Sesto. Il De Martino, manifestando la sua meraviglia per le affermazioni del Parrotta, diede la sua versione dei fatti fornendo altri particolari dell'accaduto, all'altro sconosciuti. Tra l'altro fa intendere che al Todaro sia stata recisa la testa e poi portata trionfalmente in paese. Ma diamo la parola al De Martino:

"Ma Dio buono! il Parrotta che è un meschino perchè non si impossessò del due colpi (fucile), del cappello guernito alla brigantesca, del ricco vestimento, della fascia, e di altri oggetti, che, al prezzo più mite, valgono meglio di docati quaranta? Di quali elementi potea Egli avvalersi da solo a solo col Brigante, di notte, ed in fitta boscaglia, se non delle spoglie dell'ucciso? Inoltre se il Parrotta, che dicesi meschino, ebbe il coraggio di atterrarlo, perchè non portar via la testa, e togliersi onorevolmente alla meschinità vedendo di conseguire un premio molto significante per lui, da me, per solo amor di patria, ceduto a favore esclusivo della spia? Ci è dippiù. La mattina del 23 avvisato che li era il Todaro, tosto partiva co' i miei fratelli e ritornava nel mezzodì con la testa, le armi e le spoglie: perchè immediatamente il Parrotta non reclamava la sua vittoria? Perchè nol fece il dì seguente? Ma non è il meschino Parrotta che reclama! Desso è un idiota, un'ombra dietro cui si nascondono coloro i quali, non potendo vendicare altrimenti la morte del loro protetto cercano presso la pubblica opinione denigrare il merito de gli uccisori. Il pubblico però, senza prestar facile credenza alle malignazioni di uomini codardi, e menzogneri, deve congratularsi semplicemente della morte del brigante, lasciando le autorità competenti di conoscerne il modo, di cui per ora è necessario fare un segreto, per non essere le operazioni adattate di concerto con questo sig. sotto Prefetto del Circondario contro i briganti, spiate da manutengoli, che mirano a paralizzarle, e renderle infruttuose.... Son sicuro che Ella, amante della verità e del bene della Patri si compiaccia inserire nel suo giornale la presente risposta e mi creda con stima. Campana 25 aprile 1866. Suo devotissimo Bruno De Martino".

Il Direttore, nel farsi le scuse, fece presente che la missiva del Parrotta gli era stata raccomandata dal farmacista di Campana Agostino Felicetti. Ma, comunque, lo stesso Parrotta, in pari data, fece rilevare quanto appresso:

"Signor Direttore. Nel di lei pregevole periodico n. 9 leggesi un reclamo firmato a mio nome, circa la uccisione del Brigante Todaro. Chiunque ha osato servirsi in quello scritto del nome mio è un mentitore, nemico dei Sig. De Martino, ed amico dei Briganti. Io sono un idiota (analfabeta, n. d. r.), non so leggere nè scrivere; perciò protesto solennemente in presenza dei sotto scritti Testimoni di non aver nè scritto nè dato incarico di scrivere a chicchessia il reclamo in parola. Rossano 25 aprile 1866. Francesco Parrotta croce segnato, Francesco Greco fu Giuseppe Testimone, Filippo Pugliese di Antonio idem".

Chiarito il giallo, non si può certo dire che sia finita la lotta contro i briganti intrapresa in maniera decisiva particolarmente dai De Martino. Da un'attestazione sui "Servizi resi contro il Brigantaggio dai fratelli Bruno, Gaetano, Saverio e Cesare De Martino di Carlo", rilasciata il 3 ottobre 1866 dal sindaco f. f. Nicola Ausilio, si rileva come "in seguito ai fatti di Brigantaggio che dal 1860 hanno infestato queste contrade, i fratelli De Martino sono stati sempre perseguitati dagli stessi, rendendo segnalati servizi al paese". Vengono poi segnalate le singole operazioni svolte: l'8 maggio 1860 catturarono i briganti Pietro Zangari (Manganello) di Cropalati e Giovanni Cosenza (Trincino) di Longobucco; il 5 luglio 1861 liberano Francesco Noce di Spezzano Grande, caduto nelle mani della banda Monaco di Savelli, con l'uccisione dello stesso capobanda; il 13 aprile 1864 con l'aiuto di Luca Ioverno, dopo un duro conflitto, liberano il sindaco Giovanni Palopoli ed il suo domestico Saverio Ionfrida, tenuti sequestrati da Nicola Capalbo; il 17 maggio 1865 con l'aiuto dei bersaglieri arrestano nel bosco Ornariti le due drude di Palma Anna Maria e Filomena Gagliardi da Longobucco e convincono a costituirsi il manutengolo Domenico Aprigliano; il 23 marzo 1865 Gaetano e Carlo partecipano all'uccisione dei briganti Giuseppe Scrivano da celico e Pietro Maria De Luca da Longobucco nel bosco Acqua dell'Auzino; il 23 marzo 1866 Bruno, con l'aiuto della pubblica sicurezza, uccide il brigante Todaro, la cui testa venne presentata dallo stesso De Martino al Sotto Prefetto di Rossano. Pur con risultati positivi, non mancarono però le ritorsioni e le vendette dei briganti. Questo sapore ha l'uccisione avvenuta ai primi di marzo
1867 in contrada Orgia tra Campana e Pietrapaola del capo mandria Giosuè Gallina, di anni 60. A tagliargli la testa senza pietà era stato il giovane Gennaro Cirivillo di Longobucco, che poi gettò il cadavere nel Laurenzana, in territorio di Caloveto. Malgrado tutto, comunque, il fenomeno del brigantaggio era di fatto agli sgoccioli, perchè uno per uno i vari capi banda o vennero presi e uccisi, o si costituirono. E' il caso del rossanese Cesare (o Gaetano) Romanello, arrestato proprio nella sua Rossano il 7 giugno 1868 insieme alla sua banda, formata al momento da Antonio De Simone, Domenico Parisio, Leonardo Loprete, Francesco Sammarco, Bruno Francesco, Giuseppe Morrone, Natale Pinacchio, Natale De Vincenzo e Luigi De Cicco. Un mese dopo, il 7 luglio 1868, tocca al campanese Gennaro Scavello di Salvatore, contadino e manutengolo di 30 anni, ucciso dal 7° battaglione Bersaglieri mentre tentava la fuga. Qualche giorno prima da alcuni mandriani era stato ucciso Catalano; il 12 agosto il famigerato Faccione (Francesco Godino) si era consegnato al col. Milon seguito da Domenico Graziano (Turchio); il 13 luglio 1869, infine, toccò al grande Palma, il brigante gentiluomo e re della montagna, finito miseramente in Sila per mano di un forese che riteneva amico e che, invece, ne consegnò la testa mozza al col. Milon, il quale nel darne notizia al gen. Sacchi scriveva: "La testa del Palma mi giunse ieri... una figura piuttosto distinta rassomigliante a un fabbricante di birra inglese". Con la fine di Palma e la resa di Faccione, Catalano e gli altri, restò qualche piccolo focolaio residuo e isolato, ma di certo il brigantaggio era da ritenersi ormai politicamente e praticamente sconfitto.

2. Tesori e fatti di briganti
Se il brigantaggio di fatto potè dirsi debellato, in verità l'immagine del brigante nell'animo popolare restò circonfuso di leggenda e di mistero, per cui divenne presto una sorta di eroe senza paura, simbolo contraddittorio di riscatto sociale e di pervertimento dell'ordine pubblico. Il ricordo dei briganti venne collegato, nel bene e nel male, alle vicende del paese e delle famiglie. I personaggi da storici si trasformano in personaggi quasi mitici e fiabeschi, adatti a far sognare piccoli e grandi nelle lunghe serate invernali attorno al focolare domestico. In questa rivisitazione popolare non mancano mai i richiami a tesori, veri o presunti, riposti dai briganti in nascondigli segreti, spesso "segnati" con riti di magia nera, che comportavano sempre l'uccisione di una persona. Questa restava "legata" a custodia del tesoro fino a quando sul sito non sarebbe stato ucciso un neonato senza battesimo. Così, per esempio, tesori legati in territorio si troverebbero all'Incavallicata, sulla strada Campana-Savelli, o alla Mazza del diavolo, tra Campana e Bocchigliero. Il tesoro dell'Incavallicata si aprirebbe a chi uccide un neonato sulle pietre sovrapposte; quello della Mazza del diavolo, invece, può essere trovato da chi lo sogna e, senza dir nulla a nessuno, lo cerca senza avere paura del mostro armato di mazza lasciatovi a custodia dai briganti. Ma accanto ai tesori legati si parla anche di "quadaruotti" di monete d'oro (marenghi), sempre nascosti dai briganti e di cui esisterebbero persino le mappe scritte. A Campana, alcune di queste mappe erano diventate di pubblico dominio, anche se mai si seppe di rinvenimenti realmente avvenuti. Ne abbiamo raccolto alcune di queste mappe.

1. "Parti di Francavilla derittu a Petrarossa truovi 'na petra chi pare 'na Madonna: a ottu passi c'è 'nu pede 'e làvuru e 'na petra chiatta ccu sutta 16 mila marenghi".
2. "Ntra vigna 'e Ruoccu Gallu c'è 'na turra: a ottu passi c'è 'na castagna a duvi pedicadi ccu sutta 18 mila marenghi".
3. "Parti 'e Runza vecchia derittu a Petrapavula truovi a gghiesa 'e Sant'Angiulu: mmienz'a porta c'è 'na pignatella ccu 17 mila marenghi".

Accanto a questi tesori segnalati dalle mappe, altri ancora ne esistevano nel fantastico collettivo. Uno di questi doveva trovarsi anche nell'antico cimitero di Zimmariello.



Più ampia e articolata si presenta la novellistica con protagonisti i briganti ed alcune figure campanesi. Riportiamo per sintesi alcuni di questi racconti popolari che ci consentono di caratterizzare le varie tipologie brigantesche codificate dalla letteratura popolare campanese. Il più delle volte il brigante appare col suo codice d'onore e di rispetto, pronto a riparare generosamente gli errori fatti, ma pronto anche a punire inflessibilmente gli "sgarri" e i comportamenti sleali. L'uccisione di un innocente . Nella "timpa" Cerruzzo in uno scontro al fuoco con le guardie un brigante uccide per sbaglio un contadino che si trovava a passare per caso. Qualche tempo dopo, per riparare il mal fatto mandò alla vedova del malcapitato una somma di denaro tramite un vicino di casa. Questi invece di consegnare il denaro lo trattenne per sè. Risaputa la cosa, il brigante appostò il furbacchione costringendolo a seguirlo da Via Banditi ( poi Via Cosenza), dove abitava, nella campagna dei Croci. Qui, senza sentire ragioni, lo giustiziò abbandonandolo dietro una ginestra dalle parti di S. Leonardo. Micullu 'e Luca . Micullo (Domenico) era figlio unico di Luca Ioverno, ricco proprietario di ovini di Campana. Un giorno venne sequestrato dai briganti, che richiesero al padre un forte riscatto per la sua liberazione. Nel mentre i genitori si prodigavano per trovare i soldi del riscatto, Micullo in preghiera si rivolse a S. Antonio promettendogli in voto di fargli una statua d'oro se fosse stato liberato. Nella notte in sogno gli apparve un monaco alto e robusto che lo invitò ad alzarsi e scappare. Svegliatosi di soprassalto, vide di essere slegato e quindi si diede alla fuga rientrando di corsa in casa nella felicità dei suoi. Il giorno della festa di S. Antonio, entrato in chiesa si avvide che il monaco del sogno rassomigliava al santo della statua, per cui capì che era stato S. Antonio a liberarlo. Memore del voto, fece indorare la statua del santo. Micullu 'e Mallarinu . Domenico Rossano, noto col soprannome di famiglia "Mallarino", era un bambino rimasto orfano, che era stato affidato al capo mandria Luigi Rossano per seguire la vita dei mandriani. Un giorno la mandria venne visitata da alcuni briganti che chiesero un capretto per sfamarsi. Visto il ragazzo e meravigliatisi del fatto, volero saperne di più. Impetositisi della situazione di Micullo gli diedero 50 lire perchè si provvedesse di scarpe e vestito. Andati via i briganti, alla prima occasione il capo mandria comprò il necessario, facendo felice il piccolo ragazzo. Di li a qualche tempo, nella stessa mandria capitò il brigante Andrea di Giacinto (forse Todaro). Nella notte, mentre il brigante dormiva nel pagliaio con il Rossano, questi si avvide che aveva una bellissima "frannina", una tela paesana fatta al telaio. Volendosene impossessare, meditava di uccidere il brigante con l'accetta, ma questi accortosi delle cattive intenzioni, gli tolse l'arma. Per punirlo il mattino dopo il brigante se lo portò dietro costringendolo a portare il bagaglio e a fare tutti i lavori necessari. Solo dopo una settimana potè far ritorno alla mandria. La lotta di Ciccullo col brigante . Francesco Manfredi, detto Ciccullo, era famoso per la sua forza e la possanza fisica. Volendosi cimentare con lui, un gruppetto di briganti lo sequestrarono portandolo in contrada Michelicchio. Qui il capo gli fece una proposta: l'avrebbero lasciato libero se nella lotta avesse battuto uno per volta tutti i briganti. Uno per uno i briganti vennero di fatto battuti. Restava il vice capobanda, ritenuto il più forte. Anche lui venne sconfitto, per cui non sopportando lo smacco estrasse il coltello per colpirlo. Il capo lo fermò e gli ordinò di rispettare i patti.Ciccullo aveva vinto tutti, per cui dovette essere liberato. 'U carigliu 'e Cierru . Cariglio è il dialettale del cerro, della famiglia delle querce. Il cariglio del racconto è famoso perchè da un brigante vi venne ucciso Micullo Parrotta, detto "Cierru". Questi era un forese dei De Martino. Tempo prima dai briganti gli era stato affidato un collega rimasto ferito in uno scontro con le guardia in località Minosciolo. Cierro, pur avendo avuto la raccomandazione di mantenere il segreto, avvertì della cosa i De Martino, nemici dichiarati dei briganti, che lo invitarono ad uccidere il brigante per intascare la taglia dopo averlo assicurato che avrebbero sparso la voce che ad uccidere il brigante erano stati loro durante una battuta. Così avvenne, per cui la testa del brigante venne esposta in paese. I briganti, però, non mangiarono la foglia ed a distanza di qualche tempo appostarono Micullo in località Vescio mentre era salito sull'albero per raccogliere ghianda. Costretto a scendere, suo malgrado, dal brigante fu ucciso senza pietà. Alla scena assistettero alcune donne di Mandatoriccio che si trovavano alla Serra dell'Acero: a loro il brigante gridò di educare i figli alla lealtà e a non tradire mai la parola data.

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