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La Famiglia Spinelli

Col Cinquecento inizia per Campana una nuova storia feudale caratterizzata da maggiore stabilità ed organicità. A partire dal 1505, infatti, restando nell'alveo dello Stato di Cariati, il feudo è concesso alla famiglia Spinelli, che, succeduta a Goffredo Borgia d'Aragona, lo manterrà fino al 1678, anno in cui il principe Carlo Antonio lo venderà al barone Alessandro Labonia di Rossano insieme a Bocchigliero.

Gli Spinelli sono un'illustre famiglia del patriziato napoletano del Seggio nobile di Nido. Feudataria dall'epoca normanna e decorata dei più illustri ordini cavallereschi (Toson d'oro, Ordine di S. Gennaro, Gran Croce di S. Ferdinando, Grandato di Spagna, ecc.), nel 1505, nella persona di Giovanni Battista ottenne dal Re Ferdinando, il Cattolico, il Contado di Cariati per la sua fedeltà e servitù alla Corona. Così si legge nell'atto di concessione: "Nell'anno 1505 il Ser. Re Cattolico concedè a Giovambattista Spinello e ai suoi eredi et successori ex corpore et servitù il Contado di Cariati consistente nella Terra di Cariati, Terra vetere, Scala, Campana, Umbriatico, Bucchigliero, Cerenza, Caccuro, Verzino et Rocca de Neto con sue fortilezza, casali, feudi, subfeudi, dohane, fundaci, gabelle, bagliva, banco di giustizia; ecc.. Nello stesso anno concedè la cognitione delle cause civili criminali e miste". In precedenza, nel 1496, lo Spinelli aveva ottenuto da Ferdinando II i feudi di Paola e Fuscaldo, cui si aggiungerà nel 1519 il ducato di Castrovillari, ceduto per soldi da Carlo V, che concesse allo Spinelli di arricchire lo stemma di famiglia con l'aquila imperiale. Figlio di Troiano, signore di Summonte, Giovambattista sposò Livia Caracciolo, da cui ebbe Ferdinando (o Ferrante), che gli successe nel 1522 dopo la sua morte, avvenuta in circostanze misteriose. Ferdinando, valoroso condottiero, nel 1525 divenne Grande Protonotario del Regno. Capitano Generale delle Calabrie e Basilicata, combattè con l'aiuto di oltre 11 mila spagnoli contro le truppe francesi di Lautrec, che restarono sgominate dalla sua cavalleria. Da alcuni atti del notaio cosentino Angelo Desiderio risulta che Ferdinando, forse per necessità di soldi, il 2 luglio 1534 cedette la Terra, o Castello di Campana al cognato Don Diego de Sandoval, "regio Castellano del regio Castello della Città di Cosenza e Utile Signore della Terra di Bollita", per 5000 ducati in contanti con la clausola, però, che detta Terra doveva essere rivenduta "per lo stesso prezzo, a detto D. Ferdinando Spinelli o suoi eredi e successori, ad ogni loro richiesta". Non sappiamo quando Campana tornò agli Spinelli; forse nel 1540, anno a partire dal quale non si sa più nulla del Sandoval. Di certo alla morte di Ferdinando (1548) il feudo è di nuovo in mano agli Spinelli. A Ferdinando succede il figlio Giovambattista II, che sposò Isabella di Toledo, figlia del Vicerè Pietro di Toledo. Morì nel luglio 1551, per cui il feudo venne ereditato dall'unica figlia Francesca, che lo portò in dote al marito Scipione I del ramo di Seminara. Nel settembre 1551 la vedova Isabella di Toledo, tutrice della figlia Francesca, volle preparare paese per paese l'inventario dei beni posseduti dalla famiglia. A Campana l'atto venne redatto nel palazzo comitale a cura del notaio cosentino Angelo Desiderio. Da esso si ricava che gli Spinelli anche a Campana possedevano un loro palazzo, ubicato probabilmente nella zona bassa del rione Terra, oggi distrutto. Scipione Spinelli, a parte l'aver ottenuto nel 1565 il titolo di principe di Cariati, che divenne appannaggio ereditario della famiglia, non ebbe particolari meriti, malgrado il suo governo fosse durato fino al 1603, anno della sua morte. Anzi, a causa di una amministrazione poco illuminata, che procurò un vero dissesto economico alla famiglia, dovette mettere in vendita parecchie terre; rischiando perfino di dover cedere la stessa Cariati se non fosse intervenuto l'anziano padre Carlo, duca di Seminara, ad opporsi alla vendita. Anche le rendite feudali di Campana, con quelle di Umbriatico, finirono nelle mani del principe Sanseverino di Bisignano, che le cedette al nobile napoletano Nicola de Somma. Questi nel 1556 le rivendette a Francesca Spinelli per duc. 2400. Non essendo stata, però, corrisposta detta somma, seguì tra le due parti una vertenza giudiziaria, che si concluse certamente con una pacificazione, visto che Campana ritornò ad essere degli Spinelli. Sul finire del secolo, nel 1591, gli Spinelli di Cariati vantavano svariati palazzi a Campana, Bocchigliero, Cariati, Terravecchia, ecc.. A Campana in particolare godevano il diritto di "bugliaria", consistente nel diritto di esigere una quota per ogni capo di bestiame bollato a fuoco. A Scipione I, morto l'8 agosto 1603, successe il figlio Carlo I, che morì a soli 35 anni il 17 gennaio 1614. Il feudo passò a Scipione II, il figlio avuto dalla moglie Giovanna de Capoa, dei Conti d'Altavilla. Questi sposò la tredicenne Margherita Carafa, che morì nel 1632 a seguito di un aborto. In seconde nozze sposò successivamente Carlotta Savelli dei duchi di Albano e vedova anch'essa di Pietro Aldobrandini, duca di Carpineto dalla quale ebbe ben 10 figli (6 maschi e 4 femmine). Il primogenito, Carlo, nel 1656 rinunziò alla primogenitura, per cui il feudo venne ereditato da Filippo Antonio, che per riguardo del fratello, al suo aggiunse anche il nome Carlo. Carlo Filippo Antonio (noto solo come Carlo Antonio) alla morte del padre Scipione II (1659) divenne principe dello Stato di Cariati. Sotto il principe Scipione II, Governatore di Campana è Filippo Parise (o Parisio) di Cosenza. Il suo nominativo appare in due atti di Battesimo avvenuti tra il 1636-37. Il principe Carlo Antonio nel 1673 fu ambasciatore straordinario presso la S. Sede per la presentazione della Chinea, il dono dovuto dal Re di Napoli al Papa fin dal sec. XII. Sposò Artemisia Borgia dei duche di Gandia, da cui non ebbe figli. Il feudo passò al nipote Scipione III, ma ormai, a parte il titolo di principe, rimaneva ben poco del primitivo patrimonio. Per debiti soprattutto di gioco dovette disfarsi poco per volta di tutto lo Stato a cominciare da Verzino e Savelli, venduti nel 1668 a Leonardo Cortese; Scala ceduto nel 1678 a Maurizio Cascinelli; Umbriatico e Pallagorio nel 1682 ai Rovegna, a cui aveva già dovuto cedere per 9 anni Cariati e Terravecchia. Anche Campana e Bocchigliero subirono la stessa sorte. Nel 1678 vennero cedute al barone Alessandro Labonia di Rossano per 43.000 ducati. Mons. Marino, legato da amicizia agli Spinelli, deplorò l'operazione sfogandosi con la madre del principe, Carlotta Savelli, alla quale fece pervenire una lettera, in cui tra l'altro scrive:
"E' inesplicabile l'afflizione con cui ne ricevo il successo (la notizia della vendita di Campana). La risoluzione senza dubbio non fu ben consigliata; nè so persuadermi tanta ragione che la scusasse. Perlocchè io teneramente piango le calamità lacrimose della mia Patria tra tutti altri luoghi alienata...".
Con Carlo Spinelli finisce il rapporto della famiglia con il feudo di Campana, ceduto ai Labonia. Questi non ebbero vita facile. Alcuni loro beni vennero usurpati da ignoti, tanto che nel 1682 i vescovi di Rossano, Cosenza e Cariati vengono incaricati di far restituire ad Alessandro Labonia i censi, beni mobili, scritture e libri sottratti. Forse saranno stati questi ed altri problemi a convincere il Labonia a disfarsi del feudo. Il 12 novembre 1694, infatti, il barone Alessandro Labonia vendeva le due terre di Campana e Bocchigliero a Bartolo Sambiase per 50639 ducati, avviando così un nuovo capitolo nella storia feudale di Campana.

1. Sviluppo demografico ed urbanistico
Da una nota indiretta ricavata dai Cedolari dei Registri Angioini la popolazione di Campana nel 1276-77 veniva calcolata in 2423 abitanti. Non abbiamo altri dati prima del sec. XVI, ed anche qui si tratta di calcoli indiretti dal numero dei fuochi (nuclei familiari) tassati dal governo napoletano. Possiamo farci un'idea della popolazione calcolando il fuoco pari a 6-7 persone. Il seguente prospetto offre il quadro complessivo dello sviluppo demigrafico del paese, confrontabile con la situazione dei paesi viciniori. Chiaramente i dati si riferiscono al numero dei fuochi tassati.

 
1532
1545
1595
1561 
1648
1669
CAMPANA   
198 
 262 
274 
324
300
 191
BOCCHIGLIERO
124 
207
166
 287
317 
 243 
CARIATI   
138  
129 
109 
114 
194 
 200 
CALOPEZZATI
 94  
       
 74
CROSIA    
169
 
231
   
 88 
CROPALATI  
136
289 
297
209
190
 92
PIETRAPAOLA  
150
 
218
210
100 
 75 
SCALA COELI 
175 
212
215
258 
193 
 112


Per Campana si nota come al forte incremento demografico del sec. XVI seguì un altrettanto forte calo nel secolo successivo, quest'ultimo dovuto senz'altro alle ricorrenti traversie, che non solo danneggiarono il territorio, ma provocarono anche il naturale spopolamento. Nella prima metà del Seicento ben tre furono i terremoti (1638, 1648 e 1659), che lasciarono il segno negli abitanti. Non si contano, invece, le epidemie di varia natura. Tra il 1636-38 la Calabria è interessata da una malattia, di cui non si capì la natura e che fece svariate vittime. E' nota la peste scoppiata a Napoli nel 1656 e che colpì tutto il Sud. Nella sola Cosenza per la peste perì un quinto della popolazione. Anche Campana dovette pagare la sua quota di vittime se gli abitanti tra il 1648 ed il 1669 passarono da 300 fuochi (2100 abitanti ca.) a 191 (1337 abitanti ca.). Pur non escludendo altre cause, non si può ignorare comunque l'epidemia subita. Alla peste del 1656, del resto, si richiama anche Francesco Marino in alcune sue poesie, in una delle quali si rallegra di essere scampato dal pericolo, di ritorno "da luogo sospetto di contagione". Non bisogna poi escludere le periodiche malattie endemiche provocate da alimentazione insufficiente e contagi vari. E' sintomatico, a riguardo, il quadro che si ricava dal Registro dei Battesimi dal 1629 al 1721, conservato nell'Archivio Parrocchiale. Nel 1630 su 48 nati, ben 19 morirono prima dei due anni e l'anno successivo su 73 nati ne morirono addirittura 37. E la mortalità infantile così forte non diminuì negli anni immediatamente successivi. Al flusso demografico, comunque in continua crescita, non poteva non accompagnarsi uno sviluppo urbanistico, che portò le dimore abitative anche fuori della cinta muraria oltre la Porta del Ponte. Si ha notizia che proprio in quegli anni sorse nei pressi del paese il villaggio detto "la Croce". Come pure, tra il XVI-XVII secolo cominciano a prendere consistenza i rioni Casalicchio e Castello, più consoni e comodi per i campagnoli che si ritiravano a casa dopo il tramonto e quindi rischiavano di trovare la Porta del Ponte chiusa. Il crescere degli abitanti e le nuove esigenze lavorative avviarono quello sviluppo urbanistico, che oggi costituisce anche con i rioni più recenti di S. Antonio, Argutulo, S. Leonardo, Picariello e tutti gli altri la realtà nuova e moderna di Campana. In questo contesto, ai primi del Seicento, sorse la chiesa di S. Maria di Costantinopoli, ad uso ed iniziativa dell'omonima Confraternita ed appena più sopra il nuovo convento dei domenicani, che, sempre ai primi del secolo, lasciarono il primo convento di S. Maria delle Grazie per essere più vicini al centro abitato. Esisteva già da qualche tempo, invece, la chiesa dell'Annunziata, "extra moenia", che nel 1610 è ufficiata da D. Giovanni Antonio Inglese.

2. Attività lavorative
Nel descrivere il territorio di Campana, Barrio nel 1571 riferisce che vi
"si producono vini, oli e miele famosi. Vi si trova la pietra levigante (usata per affilare i metalli), la rùbrica (terra rossa detta anche sinopia) usata dagli artigiani, il chalcantho (detto anche vitriolo), la pietra molare, vi si raccoglie la manna. Vi proviene il reupontico (?), il cardo mastice di valle (simile al bitume). Vi si fa la pece, vi nascono alberi di teda. Vi si trovano alberi di ghiande, castagneti utili per nutrire i maiali. Vi sono campi ricchi di erbe e di pascoli".

Si tratta, pertanto, di un paese a prevalente economia agricola e pastorale, per cui ci sembra poco comprensibile la notizia che nel 1452 il Re Alfonso d'Aragona abbia impartito la Viceré di Calabria l'ordine di consentire al genovese Francesco Lomelio, residente a Campana, di trasmerirsi con la famiglia a Longobucco, essendo al servizio del Re per l'esercizio delle miniere di ferro, di argento e di altri metalli ("minerarum ferri, argenti et aliorum metallorum inveniturum in provincia Calabriae"). A meno che vogliamo pensare che fosse interessato a metalli meno pregiati riscontrabili anche nel territorio di Campana. Nei secoli XVI-XVII è fiorente a Campana un discreto commercio non solo di granaglie, olio e vino, ma anche alcuni prodotti peculiari ed in modo particolare la manna, sostanza dolciastra che a Napoli veniva venduta fino a 7 scudi l'oncia. Oreste Dito calcola che a Campana e Longobucco si arrivava a produrne migliaia di cantara. Misefari parla di 30 mila libbre prodotte ogni anno a Campana e Bocchigliero. La manna si produceva facendo coagulare il succo vischioso ottenuto praticando delle incisioni nella corteccia dei frassini, degli orni e di altri alberi, di cui Campana era ricca. Soprattutto dai frassini e dagli orni si ricavava la specie più pregiata, di colore bianchissimo. L'incisione si ripeteva ogni due giorni dalla metà di giugno alla fine di luglio. La manna gocciolava lungo il tronco sotto forma di liquido incolore e trasparente, che s'induriva a poco a poco. La qualità migliore, detta "manna in lacrime", era quella purissima che si coagulava sul tronco o sui rami. L'industria della manna prosperò tanto da convincere il fisco ad intervenire con una pesante gabella (duc. 2550), provocando a lungo andare la fine di quella coltura che per alcuni secoli aveva assicurato lavoro e una fonte di sostentamento a molti contadini. Accanto alla manna si colloca anche la produzione della pece, una delle attività più redditizie dell'economia calabrese e silana in specie. A dire di Padula ogni anno si arrivava a raccoglierne fino a 10 mila cantara ( 9 mila tonnellate ca.) con un prezzo pari a 30-35 carlini a cantaro. Il suo commercio, stante il forte volume di affari, era regolamentato con una Regia Generale Capitolazione, che subordinava l'eventuale esportazione "extra regnum" al pagamento di una sopratassa e al "placet" del Preside della Provincia. Nelle trattative di vendita spesso succedevano anche degli equivoci, per cui occorreva sanare le vertenze con compromessi tra le parti. Una di queste disavventure toccò al principe di Campana Bartolo Sambiase, uno dei più grossi produttori del regno di Napoli. Per tramite del fratello Nicola, il 2 settembre 1701 aveva stipulato con Giovanni Pisanti di Genova e Stefano Donnetta di Porto Maurizio un contratto di vendita di 500 cantara di pece nera navale al prezzo di 35 carlini e un quarto al cantaro per un totale di 1762 ducati e grana 50. Al momento della spedizione, che doveva avvenire per nave da Cariati, il Preside della Provincia di Cosenza rifiutò il nulla osta in quanto gli era pervenuto un ricorso di tale Giarrello, che aveva avanzato diritto di prelazione sulle peci in forza della "Regia Capitolazione". Il sambiase fu costretto a rescindere il contratto con i genovesi con una notevole perdita di guadagno, in quanto dovette cedere il carico all'esiguo prezzo di 24 carlini al cantaro, invece dei 35, come prescriveva il regolamento interno. L'estrazione della pece aveva una procedura minuziosa. Si ricavava prevalentemente dai pini, ma venivano sfruttate anche altre piante resinose (ciliegi, prumi, ecc.), di cui il territorio silano e campanese era ricco. Il trattamento iniziava a febbraio col taglio dei rami bassi al fine di facilitare lo scolo verso il basso del succo resinoso verso la fossetta che veniva scavata ai piedi della pianta. In marzo si faceva il primo intacco sul lato del tronco verso mezzogiorno togliendo la corteccia a partire dalla fossetta. Ogni settimana la tacca venova rinfrascata allungandola verso l'alto. In primavera, con lo scaldarsi della temperatura, la resina cominciava a scolare in succo biancastro (la "pece cruda") fino a tutto settembre. Da ora fino a novembre, al contatto con l'aria, il succo diventava più consistente e si attaccava lungo la scanalatura. Veniva quindi raschiata e raccolta. Il fiore di questa pece, che si prendeva dal centro della fossetta, aveva un valore 3 volte maggiore rispetto alla resina comune e si usava per le candele. Col resto della resina, con trattamenti diversi, si ottenevano i vari tipi di pece più o meno raffinati. Malgrado la produzione della pece offrisse anch'essa buone prospettive di lavoro e di guadagno, soprattutto se si pensa che per i tempi di impegno che richiedeva era perfettamente combinabile con altre attività agricole, tuttavia come per la manna le tasse e le restrizioni di legge portarono alla sua scomparsa. Oltre a queste colture commercializzate, anche perchè sotto il controllo del feudatario locale, erano praticate colture private più comuni, che andavano dall'ortofrutta, ai vigneti e castagneti. La già più volte citata Visita Pastorale dell'arcivescovo Lucio Sanseverino nel 1610, molto dettagliata nei particolari, ci offre spunti notevoli anche per identificare le località dove erano incentivate alcune di queste coltivazioni. L'ortocoltura era per lo più sviluppata nei terreni liberi attigui al paese, soprattutto a ridosso dei rioni Manco e Destro, a un di presso dove era reperibile l'acqua ed in genere lungo i corsi d'acqua. A vigneto risultano coltivati un gran numero di terreni in località Acqua del Milo (terre di pertinenza della cappella S. Caterina, di Menico e Luca Truglio, di Giovanni Matteo Cropalati), Azzolino ( della Curia principale), Cariglita (Meranda Costantino, Giacomo Antonio de Ursico, Ferdinandina Dianira de Madaro, Ottavio l'Orefice, Laudonia moglie di Gaetano de Madaro), Cerasetto (chiesa SS. Trinità, Pietro Varatti, Donato Longobucco, Ovidio de Acri, Battista Perrotta, Giovanni Perrillo), Ciglio (Giovanni Andrea e Livia Cropalati), Fontana del Fico (Fabio de Acrio), Leone (Francesco Tramonte, Bernardino de Martino), Manganelle (Giulio Ionfrida, Fabrizio Madaro, Giovanni Antonio Grano, Tommaso e Giovanni Toscano, Orazio Benvenuto, Ferdinando Inglese, Marco Ioverno, Cesare Puglise, cappella di S. Biagio, Aurelio de Urso), Matascelle (Curie), Matta Pagliula (Aurelio de Urso, D. Filippo de Madaro, Angelo Tramonte), Pendine (Francesco Riccia, Giovanni Lorenzo Greco, Vincenzo Riccia, Marco Fellone), Petrapertusa (cappella S. Biagio, Giovanni B. de Ursico, Giovanni de Acrio, Giacomo...., Lelio de Madaro, Lupo Maiorano, Lupo Ficoli, Giovanni Alimena, dottor Filippo de Madaro, Crescenzo e Nardo de Aprigliano, Giuliano Greco, D. Orlando Puglise, Vittoria Tascione e sorelle, notaio Giovanni Luigi Perrogini, Salvatore de Acri, Giovanni Antonio de Girardis, dottor Celio de Madaro, Giacomo Perzino, Michele Grano, Francesco de Madaro), Piano di S. Maria (Bella Milito, Bernardino de Martino, dottor Filippo de Madaro, Felice de Aprigliano, D. Giovanni Perrotta, Giacomo Pignataro), Serra de Jerardo (Ioverno). La molteplicità di vigne dice quanta doveva essere la produzione di vino a Campana, da avere la possibilità di esportarlo. Sintomatico è un contratto di vendita di una cospicua fornitura di vino fatta da D. Domenico Pignataro ai bottegai di Rossano Onofri Carrozza, Nilo di Corigliano, Vincenzo Tuscano, Stefano Calabrò, Diego de Jusso, Onofrio Guerrieri e Ferrante di Marco. L'atto, stipulato dal notaio Francesco Greco il 29 novembre 1669, prevedeva la fornitura annua di 100 salme di vino "di buon colore, odore e sapore" al prezzo di 40 mezzanelle la salma "giusta misura di Rossano". La consegna ai menzionati Tavernari doveva avvenire a spese del Pignataro secondo un calendario mensile dettagliato e preciso. Per quel che riguarda la coltivazione dell'ulivo, Padula riferisce che le olive "bobbe" di Campana erano famose e che il suo olio era il migliore della zona. Sempre facendo capo alla Visita Pastorale di Mons. Sanseverino, rileviamo uliveti nelle località Azzolino (Curia del Principe, Domizio e Reale de Acrio, Fabrizio e Michele Bonvento), Colle dell'occhio (Domenico Fiorentino), Fresta (Induccia de Madaro), Gammicella, anche detta Gamucella, (cappella del Carmine, Marcello Pignataro, Marco Fellone, Supplizio Felloni, Scipione de Corno), Garpi (Giulia Fellone, Lupo Antonio de Madaro, Dianira Madaro, Marco e Geronimo Madaro), Pendine (Domenico Fiorentino, Felice e Sigismondo de Madaro, Pietro Fellone, Tommaso e Giovanni Caccuri, Martino Pugliese), Silvestro (Domenico Bonanno, Vincenzo Ionfrida), Turraca (cappella S. Caterina, cappella del Sacramento, Faustina de Madaro), Vallone della Granata (Matteo Pignataro, cappella S. Caterina, Vittorio Pugliese). Castagneti, invece, sono presenti ad Azzolino (chiesa SS. Trinità, Salvatore Cosentino), a Corvolino (Marcello Pignataro, Camillo Ioverno, cappella dello Spirito Santo), alla Pagliara (Ferdinando Inglese, Cesare Puglise), alla Ronza (chiesa dell'Annunziata, Giacomo Porco, Ciambuzzo de Martino), a Vescio (Ippolita Tuscano).


Concludiamo il capitolo con un episodio per certi versi significativo. Il 15 gennaio
1684 l'Università e gli abitanti di Campana, con la benedizione apostolica, ottenevano da Roma l'assoluzione da alcune censure, di cui però si ignorano la causa e la natura. Dell'esecuzione venne incaricato il vescovo di Umbriatico Bartolomeo Oliverio in quanto la sede di Rossano era vacante per la morte dell'arcivescovo Geronimo Ursaia. Un provvedimento analogo si avrà nuovamente l'11 novembre 1733 con la differenza che l'assoluzione dalla censura e la benedizione generale non toccò solo Campana, ma anche Bocchigliero, Calopezzati, Caloveto, Pietrapaola, Crosia e Mandatoriccio.

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