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LA STORIA DEL CONVENTO DEI PADRI DOMINICANI DI CACCURI

Il convento dei Dominicani di Caccuri venne edificato a partire dal 1515 nel luogo detto “il Casale”, a circa due miglia di distanza dal vecchio monastero basiliano dei Tre Fanciulli e a poche centinaia di metri dal paese, su di un terreno che il sindaco del tempo e l’Università misero a disposizione di alcuni religiosi tra i quali frate Andrea da Gimigliano, il vero e proprio artefice della fondazione di questo nuovo monastero caccurese. Fra le altre cose il religioso del Catanzarese si recò anche a Roma in San Giovanni in Laterano per ottenere le autorizzazioni papali.
Tra il monaco, le autorità e i cittadini di Caccuri ci si accordò per erigere il fabbricato sull’area donata dalla stessa Università, ovvero l’orto di un tal Filippo Piluso, già in passato appartenuto a Gugliemo Sproveri. L’orto in questione confinava con la strada che portava      “all’ Aruso” (Laruso), un terreno a sud est della cittadina, e la proprietà degli eredi del defunto Carlo Martino (probabilmente S. Andrea).
Reperito il suolo, l’Università si impegnò a costruire a sue spese due calcare (una fu inspiegabilmente demolita negli anni ’70) che avrebbero prodotto la calce utilizzando la pietra calcarea della vicina Serra Grande e concesse ai monaci di riscuotere una tassa di un tornese per ogni rotolo di carne o pesce che si vendeva in paese per ricavarne le somme necessarie alla costruzione dell’edificio. Le autorizzazioni ecclesiastiche furono concesse da Papa Leone X°. Poterono così iniziare ufficialmente i lavori (che erano in effetti già iniziati) per la costruzione dell’imponente complesso monastico con la benedizione del vescovo dell’epoca Gaspare de Murgis.
Nel 1542 l’abate Salvatore Rota, commendatario del vicino monastero dei Tre Fanciulli (Patia) donò alla chiesa annessa al convento la statua di S. Maria del Soccorso. La vita monastica nel nuovo cenobio procedette tranquilla per tutto il XVI° secolo, anche se i frati non riuscirono mai a reperire i fondi necessari per completare la costruzione. I monaci coltivavano i terreni intorno al monastero attingendo l’acqua dal vicino ruscello di San Nicola che alimentava la vasca di irrigazione (‘a cipia e ri monaci) nei pressi del campanile. L’acqua potabile giungeva invece da Sant’Andrea ed il convento era immerso nel verde. Tutto ciò rendeva il luogo ameno e adatto al raccoglimento al punto che il vescovo di Cerenzia mons. Maurizio Ricci nel 1626 volle trascorrervi gli ultimi giorni della sua vita proprio nel convento caccurese e fu sempre particolarmente legato a questo luogo di preghiera e di raccoglimento a pochi chilometri di distanza dalla sua diocesi. All’epoca vivevano nel monastero undici religiosi, tra sacerdoti, monaci e professi, ma già qualche decennio dopo il numero dei frati si ridusse a meno di sei, tanto che, come prevedeva la costituzione di Innocenzo X, se ne decise, in data 24 ottobre del 1652, la chiusura.
A contribuire a questa drastica decisione fu anche la grave situazione finanziaria dovuta al fatto che molti dei terreni di proprietà non erano fittati perché i cittadini di Caccuri, che avevano dovuto affrontare le spese per riparare i danni del terremoto del 1638, non erano in condizioni di poter assumersi altre spese, i tre mulini erano diroccati e, nelle ultime tre annate, c’era stata una spaventosa carestia.
Due anni dopo, però, nel 1654, il convento riaprì i battenti e, nel secolo successivo, riacquistò la sua autonomia. All’epoca i frati che vi abitavano erano ben 12 e, anche grazie alla munificenza dei Cavalcanti, la chiesa si arricchiva sempre più di opere d’arte. Il convento aveva diritti su circa cento ettari di terreno, possedeva diverse vigne, case, armenti e 13 maiali. Fu in questo periodo, probabilmente, che qualche bontempone coniò la famosa espressione nota ad ogni caccurese, “dodici monaci, tredici porci”, a significare che i religiosi non se la passavano poi troppo male e che tutti i giorni mangiavano “cuzzettu e fave”, ossia guanciale bollito con le fave.
Nel 1690 il Padre Provinciale dei Predicatori concesse l’autorizzazione ad erigere, in una stanza del convento, la cappella della Congregazione del Santissimo Rosario accogliendo una richiesta di un gruppo di cittadini caccuresi tra i quali Francesco Bonaccio, Orazio Antonio Novello, Filippo Mele, Santino Falbo e Francesco Mele. Come contropartita il Padre Provinciale pretese dalla Congregazione il versamento della somma di 15 carlini annui al convento a titolo di elemosina.
Ottenuta l’autorizzazione i confratelli si misero subito all’opera e, grazie anche alla munificenza dei Cavalcanti, la chiesetta si arricchì sempre più di capolavori dell’arte barocca, sculture e quadri. Particolarmente sensibile e generoso si mostrò don Antonio Cavalcanti, figlio primogenito del duca Don Marzio che rinunciò alla successione per farsi cavaliere di Malta e che convinse il padre a donare alla Congregazione, con un atto del 4 gennaio 1750 stilato nel castello di Caccuri e controfirmato dal suo segretario Diego Guarascio, che era anche il sindaco dell’epoca, il ricco terreno denominato Vignali a est della cittadina. Ciò gli valse una epigrafe in latino che è possibile ancora leggere sugli scanni corali della chiesetta e che ci informa che “tutto ciò che si vede nel tempietto fu condotto a termine dal frate dominicano Antonio Cavalcanti, nell’Anno del Signore 1753, in voto alla Vergine del Rosario perché la si possa lodare.”
Nel 1824 la Congregazione implorò il Papa affinché concedesse l’indulgenza plenaria per coloro i quali visitavano la chiesa nei giorni delle feste principali e in tutte le domeniche dell’anno. I confratelli chiedevano inoltre che questo privilegio fosse perpetuo ed applicabile “pur in suffragio delle anime del Purgatorio”.
Il Papa Leone XII, il 24 luglio dello stesso anno, su sollecitazione del cardinale Nava, concesse il privilegio. Infine, qualche anno dopo, i confratelli chiesero al Santo Padre di “voler loro accordare la partecipazione ai privilegi che si godono dall’ordine dei Predicatori, quantunque vengano diretti nello spirituale dai Religiosi riformati, venendo raccomandati dal proprio ordinario coll’attestato che si umilia qui annesso.”
Anche quest’ultimo privilegio venne concesso dal papa Gregorio XVI° il 27 marzo del 1835. I nomi dei confratelli trapassati, dal 1835 al 1860, venivano annotati in un registro conservato nella stessa chiesa. Il lunedì di Carnevale, poi, sempre nella stessa chiesetta, veniva celebrata una messa in loro suffragio con la presenza sull’altare dei teschi di alcuni defunti tra i quali quello dello stesso fondatore Antonio Cavalcanti. Questa singolare tradizione rimase in vigore fino alla metà degli anni ’50 quando la Congregazione fu sciolta.
La piccola, splendida chiesa è adornata da un altare barocco con tela raffigurante la Vergine del Rosario e S. Domenico inginocchiato ai suoi piedi nell’atto di ricevere dal Bambinello, che è in braccio a Maria, il rosario. Si tratta di una rappresentazione unica nel suo genere in quanto non vi è raffigurata, a differenza di molte altre tele simili, S. Caterina. Ai lati dell’altare, in due nicchie, sono custodite le statue dell’Addolorata e della Madonna dei Fratelli. Sulla volta sono rappresentate scene del vecchio testamento. All’interno degli scanni corali, come è già stato detto, vengono custoditi i teschi dei confratelli defunti recuperati agli inizi del XIX secolo dalle fossae mortuorum.
Tornando alla Chiesa della Riforma, va ricordato che nel 1781, Francesco Paolo Cristiano decorò il monumentale altare di San Domenico.
Qualche anno dopo, nel 1809, quando i Francesi occuparono il Regno di Napoli, il convento dei Dominicani venne soppresso con un decreto del 7 luglio. Riaprì solo nel 1833 per iniziativa dei frati Francescani Riformati che vi rimasero fin dopo l’Unità d’Italia quando fu soppresso definitivamente. Nel 1865 monastero e chiesa furono venduti al barone Giovanni Barracco e, nei primi anni ’50, gli eredi Barracco rivendettero il monastero a privati, mentre la chiesa divenne proprietà della curia arcivescovile.
Nel 1956 furono eseguiti alcuni lavori fra i quali la copertura del campanile che era crollato da decenni ed il rifacimento del tetto. Nel piano terra del campanile era stata ricavata una stanza nella quale abitava un vecchio muto e la moglie che custodivano e pulivano la chiesa. A quei tempi vi era ancora abbondanza di opere d’arte e di arredi tra i quali un grande organo a canne che, pare, venne poi venduto verso la fine del decennio perché oramai inservibile. Probabilmente in quell’occasione fu demolito e disperso anche il soppalco che sovrastava l’ingresso del tempio e che era retto da colonne in legno. Su una di esse era stata collocata una cassetta delle elemosine con scolpito un bassorilievo della Morte e la scritta “Come tu sei io fui; come io sono tu sarai.”
Negli anni ’60 e ’70 il degrado del monumento subì un’accelerazione finché, nel 1972, crollò il tetto e la chiesa rimase scoperchiata per otto anni. Negli anni ’80 l’amministrazione del tempo provvide, con fondi propri e con contribuiti della Provincia e della Regione, ad eseguire alcuni interventi urgenti che impedirono la perdita definitiva del bene. Attualmente sono in corso lavori per impedirne l’ulteriore degrado della importante chiesa.
Tra le opere più significative di quelle che si sono salvate e sono giunte fino a noi nonostante l’incuria, l’abbandono e gli sfregi arrecati al monumento, figura un bellissimo ambone intagliato, un crocifisso ligneo, le statue di San Vincenzo, Sant’Antonio e San Francesco di Paola e quella della Madonna del Rosario.

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